Scopri i capolavori conservati al Museo degli Strumenti Musicali di Roma
Benvenuto a bordo di questo viaggio indimenticabile nel mondo della musica e della cultura presso il Museo degli Strumenti Musicali di Roma!
Qui potrai iniziare un viaggio affascinante attraverso le meraviglie del nostro museo, dove la musica e la storia si fondono in un’unica esperienza coinvolgente.
Scrive Confucio, uno dei maggiori filosofi che la storia ricordi: ‘Volete sapere se un popolo è ben governato e ha buoni costumi? Ascoltate la sua musica’. La musica popolare costituisce l’espressione fedele dell’immediato sentire dell’uomo, il linguaggio della sua vita quotidiana, immediatamente comprensibile per tutti. Tuttavia sarebbe un grave ritenere questa forma espressiva subalterna alla cultura ‘alta’. Si tratta piuttosto di un filone musicale parallelo che spesso si interseca con la musica colta; non a caso, autori come Beethoven, Chopin, Stravinskji hanno spesso tratto ispirazione dal repertorio popolare. Il profondo legame che unisce la musica alle origini ed alla storia di una civiltà è testimoniato proprio dai suoi strumenti, spesso derivati da esemplari lontanissimi nel tempo: elementi di epoca antica addirittura preistorica sopravvivono nei loro moderni discendenti. Come nel caso delle launeddas sarde, di origine antichissima, imparentate all’aulòs greco ed alle tibiae romane. O come l’alphorn – una lunga tromba diffusa prevalentemente in Svizzera – che vanta antecedenti preistorici e che nella forma ricorda vagamente il lituus bronzeo dei romani. Le nacchere si richiamano a cimbali e crotali, diffusi in tutto il mondo antico. Spesso anche gli strumenti musicali di invenzione recente presentano precise affinità con forme e sonorità del passato: è il caso dell’ocarina di Budrio, nata nel 1863 per opera di Giovanni Donati. Questo piccolo strumento a fiato deve il suo nome alla forma simile a quella di una piccola papera, e mostra analogie con gli antichissimi flauti globulari cinesi, già documentati a partire dal XV secolo a.C. e diffusi soprattutto come giocattolo per bambini. Al liuto introdotto in Europa dagli Arabi, si richiama il mandolino, tra i cui suoi cultori ricordiamo la regina Margherita di Savoia. Lo scacciapensieri, oggi diffuso soprattutto nell’Italia meridionale, vanta origini antichissime e nasce nel sud-est Asiatico come strumento per alterare la voce. In questo universo variegato di rimandi culturali e geografici sta la grandezza degli strumenti popolari. Strumenti che in modi e forme diverse fanno sentire la loro voce che viene dalle radici stesse dell’umanità e percorre la trama della storia.
Si è scelto di far iniziare il percorso attraverso la musica nel mondo dai paesi a noi più lontani attraverso ricalcando le mappe geografiche i viaggi e gli scambi culturali che hanno portato a forme di contaminazione e sviluppo
La sezione archeologica del museo comprende preziosi e rari reperti di epoca antica, tra cui strumenti a fiato e a percussione in terracotta, metallo e osso databili a partire dal V-VI secolo a. C. fino al II-III secolo d. C., il cui utilizzo era di natura varia, ludica, pratica o religiosa. Alcuni strumenti, come ad esempio corni e fischietti, sono ancora funzionanti.
Non si conservano esemplari a corda, tipologia molto diffusa nell’antichità, ma che, essendo costruita prevalentemente in legno, materiale fortemente deteriorabile, è difficilmente rintracciabile negli scavi archeologici. Rimangono però i preziosi ponticelli di strumenti a corda e i piroli, realizzati in osso o avorio.
Molti sono gli strumenti a percussione come sonagli, crotali e campanelli, che avevano un larghissimo uso nella vita quotidiana dell’antichità; da quello rituale durante le cerimonie religiose, a quello musicale per segnare ritmicamente le melodie, fino a quello più pratico come ornamenti, strumenti da segnale, finimenti per cavalli, giocattoli per bambini. Nel culto dei morti acquisivano anche una funzione magica e apotropaica, in quanto il corpo dei defunti veniva ornato con questi strumenti al fine di allontanare gli spiriti maligni.
Tra gli strumenti a percussione il museo mostra bellissimi sistri. il sistro è uno strumento diffusosi in area mesopotamica, greca e romana, il cui utilizzo è associato al culto della dea Iside. Si segnala la presenza di due importanti tibiae che troverete descritte nelle pagine di approfondimento.
La collezione conta anche reperti ed oggetti raffiguranti musicisti o strumenti musicali, come ad esempio frammenti di altorilievi, sculture e lucerne. Gli oggetti, provenienti dal mondo etrusco, romano, greco-romano ed egizio,
Il Museo conserva ed espone importanti strumenti a fiato, alcuni di essi unici e preziosi.
Per le persone che si avvicinano al mondo dell’organologia è bene evidenziare una importante distinzione tra le tipologie di questi strumenti che vi invitiamo ad riconoscere durante la visita.
La vera caratteristica distintiva degli strumenti a fiato non è il materiale di costruzione, ma il tipo di imboccatura.
Nella famiglia dei legni l’imboccatura è ad ancia semplice o doppia, tranne che nel flauto traverso. La maggior parte di questi strumenti a fiato (flauto, clarinetto, oboe, fagotto) è tradizionalmente costruita a partire dal legno, che ne costituisce la struttura di base. Tuttavia, alcuni di questi strumenti sono costruiti facendo anche uso di altri materiali. Il sassofono è un legno e viene costruito quasi esclusivamente in metallo. Tra i legni del Museo vanno segnalati quelli rinascimentali: tra questi il gruppo di sette cornamuti torti, realizzati da Joerg Weier, costruttore attivo in Baviera intorno alla metà del ‘500 e che costituiscono un insieme omogeneo di strumenti di taglie diverse, rarissimo perché è il più ricco tra quelli ancora esistenti.
Negli ottoni (tromba, cornetta, flicorno, trombone, tuba, corno francese) l’imboccatura è a bocchino, una componente a forma di tazza che trasmette la vibrazione delle labbra del musicista alla colonna d’aria.
Si evidenzia l’evoluzione subita, tra il Settecento e l’Ottocento, dagli strumenti a fiato della famiglia dei legni al fine di ottenere la massima sonorità e omogeneità timbrica; a tal proposito, nel 1847, era stata risolutiva l’invenzione del sistema di chiavi” ad opera del flautista tedesco Theobald Böhm.
Anche corni e trombe, della famiglia degli ottoni, furono oggetto di un’intensa sperimentazione finalizzata a dotarli delle note che gli strumenti ‘naturali’ (quelli costituiti da un semplice tubo ritorto) non permettevano di ottenere. La soluzione fu trovata con l’introduzione di valvole in grado di deviare il fiato in un percorso supplementare. L’idea venne nel 1812 al minatore-musicista Friedrich Blühmel osservando l’efficace funzionamento delle condotte d’aria nelle miniere dell’Alta Slesia.
I serpentoni, utilizzati in origine soprattutto per accompagnare il canto liturgico, alla fine del 1700 iniziarono ad essere impiegati anche nella musica civile e in quella militare; basson russe, cimbasso e oficleide ne rappresentano l’evoluzione per l’utilizzo nelle orchestre e nelle bande ottocentesche.
I virginali, le spinette, e i clavicembali sono strumenti a corde pizzicate da salterelli, con penne ovvero piccoli plettri inseriti nella parte mobile del salterello stesso, comandati da tasti. Si distinguono per la diversa forma della cassa, per le dimensioni e per la disposizione delle corde: quelle del clavicembalo sono nella direzione delle leve dei tasti, mentre quelle dei virginali e delle spinette sono più o meno parallele alla tastiera.
Il clavicembalo fu concepito intorno alla fine del XIV secolo e conosciamo il nome del suo inventore: il viennese Hermann Poll (1370 – 1401), citato in una lettera del 1397 da un erudito padovano che lo descrive a un suo corrispondente viennese come dottore e uomo di ingegno. Hermann Poll fu infatti lo sfortunato medico personale del re tedesco Ruprecht III, condannato al patibolo a 31 anni per cospirazione a danni del sovrano stesso.
Tra gli strumenti preferiti in epoca rinascimentale e barocca, il clavicembalo era usato come solista, così come nell’orchestra, nell’opera e nella musica da camera. Il suo repertorio è molto vasto: dalle suite alle toccate, dalle sonate ai concerti. Molti compositori si sono cimentati nello scrivere pezzi per questo strumento: tra questi Domenico Scarlatti ha composto 550 sonate.
Simbolo dell’aristocrazia e della ricca borghesia, il clavicembalo era anche considerato un lussuoso elemento di arredo. Oltre ad essere oggetto di particolare cura nella meccanica, la cassa e il coperchio si prestavano a divenire spazio per artisti, alcuni dei quali di chiara fama. Anche le strutture lignee come le casse e i piedi laddove esistenti, sono spesso vere e proprie opere di ebanisteria artistica e di intarsio.
Nonostante le capacità sonore più limitate, la spinetta e il virginale erano più diffusi del clavicembalo perché più economici e più piccoli. Venivano utilizzati principalmente nelle case private, più spesso dai dilettanti, dai bambini, piuttosto che da professionisti.
Grazie al recente progetto del museo “Suoni Ritrovati” molti dei preziosi clavicembali del Museo sono stati restaurati e alcuni di essi sono suonati con le dovute attenzioni da musicisti di fama internazionale in occasione rassegne musicali pensate per il Museo.
L’organo è uno strumento musicale che discende dall’organo idraulico inventato da Ctesibio di Alessandria (285-222 a.C.), particolarmente diffuso nel mondo antico greco e romano. Fin dai primi secoli del cristianesimo, gli strumenti “pagani” furono banditi dal culto religioso, mentre è noto che presso la corte imperiale di Costantinopoli era diffuso l’uso dell’organo pneumatico, così definito per differenziarlo da quello ad acqua. In Occidente la presenza di questo strumento è testimoniata in Francia, alla corte di Pipino il Breve nel 757 d.C. e altri due esemplari simili sono documentati durante il regno di Carlo Magno e di Ludovico Pio. Nel XII secolo l’organo aveva assunto un ruolo di rilievo nella liturgia della Chiesa cattolica e nei conventi nelle cui immediate vicinanze si svilupparono centri di produzione strumentaria.
L’iconografia del XII secolo mostra come al tempo gli organisti non avevano a disposizione una tastiera, ma un dispositivo di tiranti o larghe stecche che mettevano in azione con la mano o premevano con il polso. Le prime tastiere appaiono nel XIV secolo, periodo in cui si definisce lo strumento come oggi lo conosciamo, ovvero costituito da: mantice, un tempo azionato a mano (oggi messo in uso con ventilatori elettrici); somiere, specie di grande cassa collegata al mantice, che distribuisce l’aria alle canne; consolle dove si trovano i comandi azionabili.
I grandi imponenti organi delle cattedrali sono dotati di grandi canne e di enormi mantici, per il cui funzionamento erano impiegate decine di persone. Ma esistono altre versioni dello strumento, come l’organo positivo, di dimensioni più ridotte ma non tali da poter essere suonato senza essere stabilmente posato, e l’organo portatitivo che, come testimoniano dipinti e miniature medievali e rinascimentali, veniva semplicemente poggiato sulle ginocchia o tenuto a tracolla.
Gli organi positivi, avevano fogge e tecniche costruttive assai diversificate, solitamente avevano una sola tastiera, un numero limitato di file di canne ed erano privi di pedaliera o ne avevano una di estensione molto limitata; erano quindi nati per essere suonati in ambienti ristretti e per accompagnare le voci e gli altri strumenti. Tra gli organi del museo spiccano quelli di scuola napoletana e quelli da processione come il piccolo organo portatile realizzato da Domenico Traeri nel 1689, ma si segnala anche la presenza di un regale, uno strumento musicale, in uso dalla fine del Medioevo, consistente in una specie di piccolo organo portativo, dotato di ance metalliche alimentate da due mantici azionati a mano. Aveva pochi registri, talvolta uno solo, e una estensione da due a quattro ottave. Un tipo di regale più piccolo come quello esposto, si diffuse più tardi: in esso l’aria soffiata dai mantici, va direttamente nelle ance.
Il regale era uno strumento da chiesa e domestico, da processione e da camera ed era utilizzato sia come solista che come accompagnatore del canto solistico, ruolo per il quale venne usato anche da Claudio Monteverdi nel recitativo di Caronte nell’atto III del suo “Orfeo”, rappresentato a Mantova nel 1607. Lo strumento esposto nel Museo è del tipo portativo, detto anche con il nome tedesco, Bibel-regal perché ripiegato in modo che la tastiera, con la fila delle ance, restasse inclusa tra i mantici, assumeva l’aspetto di una Bibbia, ossia di un grosso libro.
La pratica del basso continuo nasce all’inizio del Seicento in seguito alla grande diffusione del canto solistico e del virtuosismo strumentale propri dello stile barocco e all’esigenza di realizzare un sostegno armonico strumentale che accompagna le parti superiori della composizione (vocale o strumentale) in modo rapido ed efficace dal principio alla fine (perciò è detto continuo).
L’esecutore realizza il sostegno armonico improvvisando, applicando una serie di regole.
Il termine basso continuo tuttavia fa riferimento alla pratica della musica sacra polifonica per grandi insiemi vocali e strumentali, dove l’organista incaricato di realizzare il sostegno sonoro ed armonico della composizione, ricavava una parte basata sulla voce del basso, o, nei momenti in cui il basso taceva, sulla voce più grave.
Il basso continuo può essere realizzato su una molteplicità di strumenti, ognuno dei quali viene impiegato secondo le sue possibilità e potenzialità (estensione, sonorità, possibilità di creare un fondamento o una parte ornamentata)
Possiamo poi distinguere tra strumenti armonici (che eseguivano sia la parte del basso sia la realizzazione armonica) e strumenti melodici (che eseguivano la parte del basso).
Gli strumenti armonici sono:
Nel corso del tempo questa grande varietà di strumenti va assottigliandosi per arrivare nel Settecento alla formazione essenziale costituita da tastiera (clavicembalo o organo), e violoncello.
Non più tardi del IX secolo in Asia centrale venivano prodotti eccellenti archi da caccia. Fu in questo periodo che venne l’idea di strofinarne uno sulle corde di uno strumento, fino ad allora pizzicato, per trarne un nuovo tipo di suono. L’uso dell’arco si diffuse successivamente nell’Oriente musulmano e bizantino per giungere in Spagna e in Italia Meridionale intorno alla metà del X secolo.
Le corde venivano sfregate insieme contemporaneamente come avverrebbe oggi passando l’archetto su una chitarra. Alla fine del XV secolo due grandi invenzioni come la costruzione della cassa in parti separate assemblate insieme e l’adozione del ponticello arcuato condurranno all’evoluzione degli strumenti ad arco, all’invenzione del violino e della viola da gamba e all’affermazione di una tradizione che si sviluppa nei due centri propulsivi della liuteria italiana di epoca barocca: Brescia e Cremona.
Il ponticello arcuato aveva consentito di avere una disposizione delle corde su piani distanziati facendo in modo che l’archetto potesse sfregarle separatamente l’una dall’altra, isolando i singoli suoni. Tra il Settecento e l’Ottocento, nuove esigenze espressive e mutate modalità di ascolto della musica in sale da concerto sempre più grandi, richiesero strumenti musicali con una maggiore potenza sonora, Ciò determinò un cambiamento nella struttura degli strumenti ad arco, che vengono rinforzati e modificati sotto il profilo costruttivo per poter dare alle corde maggiore tensione e volume sonoro.
Gli strumenti ad arco assumono un ruolo preminente nella produzione musicale grazie anche all’affermarsi di forme musicali nuove come il “quartetto d’archi”. Agli ensemble d’archi si unisce spesso il pianoforte, in una formazione strumentale apprezzata dai compositori a partire dagli ultimi decenni del 1700.
Tra viole violini violoncelli contrabbassi pochette, trombe marine spiccano per importanza il violino detto Il Portoghese di Andrea Amati e un contrabbasso di Gasparo da Salò
Fino alla fine del Medioevo la costruzione degli strumenti a corde, si basava su un procedimento che prevedeva la realizzazione della cassa mediante la progressiva asportazione del legno da un unico pezzo per la realizzazione della cassa acustica, poi ricoperta con una tavola armonica.
La trasformazione più significativa verificatasi durante il primo Quattrocento fu la sostituzione della cassa scavata con una realizzata assemblando più parti separate di legno. Ciò consentì di dare maggiore elasticità e di amplificare ed esaltare la vibrazione delle corde. Inoltre, questi strumenti, suonati con il plettro, colpendo tutte, o quasi, le corde insieme cominciarono ad essere suonati pizzicando le corde. Ciò consentì di isolare una nota per volta come richiesto dalla musica polifonica.
Alcune modifiche fondamentali vennero apportate alla chitarra a partire dalla seconda metà del ‘700 con l’adozione di corde singole (invece che doppie) e l’aggiunta della sesta corda. Intorno al 1850, il liutaio spagnolo Antonio de Torres Jurado mise a punto il modello dall’ampia cassa e dalla grande risonanza su cui si basa ancora oggi questo strumento.
In questo periodo si attestò una nuova tipologia di mandolino con maggiore volume sonoro, il cosiddetto mandolino napoletano con quattro corde doppie, accordato come il violino. Tipologia a sé stante è quella del mandolone o “liuto romano”, con un capotasto rialzato per le corde basse d’accompagnamento, specialità del costruttore romano Gaspar Ferrari.
I salteri esposti, quasi tutti databili al 1700, rappresentano tarde testimonianze di uno strumento molto diffuso e suonato fino alla fine del secolo, poi scomparso quasi completamente e riapparso in epoca molto recente. Questi potevano essere suonati pizzicando le corde o a percussione
L’arpa, strumento musicale a corde pizzicate tese sopra un telaio triangolare, ha un’origine antichissima.
L’arpa rinascimentale con una fila di corde era in grado di suonare solo sette note per ottava, ovvero la scala diatonica. A partire dal XVI secolo, si introduce l’arpa cromatica, munita di 12 corde per ottava e si costruiscono strumenti a due ordini e tre ordini di corde, come l’arpa Barberini, uno degli strumenti iconici del museo che permetteva all’esecutore di raggiungere tra due file di corde accordate diatonicamente una terza fila centrale di corde accordate cromaticamente.
Nei primi anni del 1600, il compositore italiano Claudio Monteverdi introdusse l’arpa nell’orchestra e da allora ne è divenuto un elemento fondamentale.
L’esigenza di perfezionare questo strumento per consentire una maggiore sonorità, portò, con l’introduzione dei pedali, ad un progressivo processo di meccanizzazione. Il movimento del pedale faceva sì che si azionasse un meccanismo in grado di modificare la lunghezza vibrante delle corde e di alzare di un semitono tutte le note aventi lo stesso nome. Il sistema adottato per tutta la seconda metà del ‘700 non consentiva però di ottenere tutte le tonalità desiderate. Risolutiva, fu l’introduzione della meccanica a doppio movimento, brevettata nel 1811 dal costruttore di arpe e pianoforti Sébastien Erard. Questo sistema consentiva, grazie a due diverse possibili posizioni del pedale di alterare una nota non di un semitono ma anche di due, aumentando in tal modo le possibili combinazioni dei suoni disponibili, rendendo di fatto l’arpa interamente “cromatica”, cioè in grado di poter suonare qualsiasi suono desiderato.
Fino all’inizio del XVII secolo, l’impiego delle percussioni, così presenti nella musica araba e turca fu molto poco frequente nell’Occidente Cristiano, che attribuiva a questi strumenti una forma di espressione pagana.
In Occidente, infatti, questi strumenti hanno avuto per lungo tempo esclusivamente una funzione di accompagnamento o di tipo pratico. I tamburi, ad esempio annunciavano i proclami dei banditori nelle epoche in cui la comunicazione scritta era limitata o del tutto sconosciuta.
Tra la fine del Seicento e per tutto il Settecento, con il declino dell’Impero Ottomano, i Turchi non furono più considerati una minaccia. Si diffuse una vera e propria moda per le bande militari dei giannizzeri turchi, formati, oltre che da alcuni strumenti a fiato, da un’appariscente sezione percussiva formata da tamburi, piatti, cappel cinese e triangoli.
Fu probabilmente la Polonia nei primi decenni del ‘700 a dare inizio a questa moda, quando il sultano “donò” una formazione musicale al re polacco Augusto II.
Molti compositori come Haydn e Mozart e successivamente Beethoven associarono questo tipo di strumenti alla musica orientale e militare.
Dalla fine del ’700. progressivamente la formazione turca andò a costituire la base della sezione di percussioni dell’orchestra romantica
Questa particolare sonorità influenzò anche i costruttori di pianoforti che vennero dotati di un pedale che imitava grancassa, piatti e triangolo.
Anche l’Opera italiana venne influenzata da questa moda. Oltre ai noti passi rossiniani del Tancredi e de L’italiana in Algeri che comprendono in partitura una parte dedicata alla cosiddetta banda turca, sono numerose le composizioni che prevedono un organico del genere, soprattutto nelle sezioni introduttive e nei finali d’atto.
La banda è un complesso musicale formato esclusivamente da strumenti a fiato e a percussione; nel caso della banda in movimento i suonatori vengono diretti dal ‘mazziere’ chiamato anche ‘tambur maggiore’o ‘capomusica’, che sfila insieme ai bandisti precedendoli e dando loro le spalle; egli tiene in mano un bastone (la mazza) col quale impone comandi relativi sia alla musica che ai movimenti da eseguire. L’origine della banda, così come oggi è intesa, risale alla seconda metà del 1700, con gruppi di suonatori di oboi, clarinetti, fagotti e corni. Per imitare la musica turca’, caratteristica delle bande delle guardie militari del Sultano (i giannizzeri), vennero introdotti grancassa, piatti e triangoli La fortuna della banda aumentò notevolmente nel corso del 1800 ed ebbe singolare impulso con l’introduzione dei flicorni (strumenti con tubo conico ad ampia campana) dal timbro caldo e pastoso, e dall’evoluzione della tecnica costruttiva degli ottoni con l’invenzione delle valvole che permise nuove sonorità.
Inventato a Firenze poco prima del 1700 dal costruttore di cembali della corte medicea Bartolomeo Cristofori (Padova 1655 – Firenze 1732) il pianoforte non ha, nell’immediato, una consistente diffusione in Italia. Il nuovo strumento si afferma prima in Germania, verso la metà del Settecento, con esemplari realizzati per mano dell’organaro tedesco Gottfried Silbermann (1683-1753), fondatore di una manifattura che avrà molta fortuna.
I modelli di pianoforte a coda a partire dal 1760 furono affiancati da quelli a tavolino, più economici e meno ingombranti. Intorno al 1770 vengono applicati i pedali e la tecnica di costruzione dello strumento subisce una prima importante trasformazione. Londra, Vienna e Parigi sono i principali centri di produzione di pianoforti. Particolarmente apprezzati dai grandi compositori romantici furono gli strumenti prodotti dalle fabbriche parigine di Ignace Pleyel (1757-1831) e Sébastien Erard (1752-1831); ma spetta senza dubbio a Vienna il primato per il maggior numero di manifatture di pianoforti, come quelle di Johann Andreas Stein (1728-1792) e di Anton Walter (1752-1826), i cui strumenti furono suonati da Mozart.
La costruzione e l’uso di strumenti automatici e meccanici per diffondere musica all’aperto ha una tradizione molto antica; basti pensare agli organi idraulici dei giardini all’italiana di epoca rinascimentale o barocca o agli orologi musicali dei campanili del nord Europa.
In pieno Ottocento compaiono le scatole musicali, o carillon. Dotati di un meccanismo costituito da un cilindro chiodato rotante, le cui punte pizzicano un pettine metallico a lamine intonate, producono musiche più o meno elaborate.
In spazi di ampie proporzioni, ove era richiesta una particolare sonorità e la possibilità di eseguire brani di lunga durata, nasce una varietà di pianoforti e organi destinati ad animare le sale da ballo pubbliche e private, attivati da cilindri chiodati di grandi dimensioni, oppure da lunghe strisce di cartone perforato e ripiegato.
Particolarmente interessanti sono due grandi esemplari esposti nel museo che sono anche due esempi di magistrale intaglio: un’organo meccanico ottocentesco, collocato all’interno di un mobile che riproduce le fattezze del duomo di Siena, insieme al mobile contenitore di rulli che riproduce il duomo di Orvieto: probabile opera del viennese Anton Beyer, uno dei più abili costruttori di orologi musicali e strumenti automatici, trasferitosi a Napoli nel 1832 su invito della corte Borbonica.
Prima dell’avvento dei grammofoni, negli ambienti di contenute dimensioni, per riprodurre musiche
da ballo e celebri brani d’opera, si utilizzavano strumenti meccanici a dischi (che ricordano i dischi in gommalacca o vinile) o nastri perforati in carta o in metallo o cilindri con piccoli chiodi.
Talvolta, il sistema meccanico azionava anche un meccanismo di automi semoventi.
Pablo Echaurren, pittore fumettista e scrittore nato a Roma nel 1951, sviluppa a partire dagli anni ’70 una vera passione collezionistica per i bassi elettrici: «Anche solo a guardarlo, il basso mi produce uno stato di eccitazione viscerale elettrospinale altrimenti detta pelle d’oca. Non parliamo poi sfiorarlo, toccarlo, strofinarne il manico e lisciargli le corde. Sortisce l’effetto tipico della lampada di Aladino: spirali di fumo, visioni, apparizioni…» (tratto da Bassi istinti. Elogio del basso elettrico di Pablo Echaurren, 2009). Gli oltre cinquanta pezzi della sua collezione, custoditi nel Museo Nazionale degli Strumenti Musicali, raccontano la storia e l’evoluzione di questo strumento attraverso gli esemplari Fender, Gibson, Rickenbacker, Danelectro, Eko, Wandrè. La raccolta comprende anche una creazione originale dell’artista, il Cloe Pablo Bass (2009).